L'insostenibile leggerezza dell'industria del Fast Fashion

2022-10-02 10:53:39 By : Ms. judy zhu

Sfruttamento della manodopera a basso costo, lavoro minorile, discriminazioni e ovviamente inquinamento, consumo energetico e delle risorse naturali. Dietro il nome friendly "moda usa e getta" si nascondono cose molto, molto brutte

Nessuno, o quasi, pensa più alla durata dei capi di abbigliamento: si compra compulsivamente ciò che serve o ciò che piace sapendo che nell'arco di qualche mese o un paio di anni quel capo sarà inservibile. E sta bene, quasi a tutti, così. Ma questa deriva della moda accessibile, low cost e spesso di scarsa qualità ha un impatto sull'ambiente. Ma andiamo con ordine. Il termine Fast Fashion (dall'inglese letteralmente “moda veloce”), è stato utilizzato per la prima volta all'inizio degli anni Novanta, quando Zara sbarcò a New York e il New York Times ha voluto descrivere il fatto che Zara intende impiegare solo 15 giorni per progettare, produrre, distribuire, allestire e vendere i suoi capi. Oggi si usa in riferimento a tutti quei vestiti che passano in poco tempo dalla progettazione alla vendita, ovvero ai brand e alle grandi catene di distribuzione che producono "capi a basso costo che copiano gli ultimi stili delle passerelle e vengono rapidamente allestiti nei negozi per massimizzare le tendenze attuali". Chiamarla “moda usa e getta” e parlare solo della velocità della produzione o della scarsa qualità dei materiali generalizza un discorso molto più ampio e molto più complesso: non tutti i capi di abbigliamento venduti dai grossi brand industriali come (Zara, H&M, Primark e simili) sono di scarsa qualità, anzi: alcuni possono durare anche diversi anni. Tuttavia restano i temi dell'iper produzione, dello sfruttamento di manodopera a bassissimo costo e senza diritti, a volte del lavoro minorile. Inoltre, la fast fashion contribuisce in modo determinante all’inquinamento che nasce dall’industria del tessile che già è la seconda industria più inquinante del pianeta oltre che la prima in classifica quando si parla di consumo energetico e sfruttamento delle risorse naturali. Infatti, l'Unione Europea vorrebbe che tutte e tutti dicessimo addio all'economia dello spreco, all'obsolescenza programmata, al fast fashion e alla distruzione delle merci invendute, a partire proprio dal settore del tessile e dell'abbigliamento attraverso nuove regole volute dal commissario all'Ambiente Virginijus Sinkevicius, per rendere la maggior parte della produzione o dei prodotti in cirolo sul mercato europeo "circolare" ed "efficiente". E ora un po' di numeri. L'equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti viene bruciato o gettato in una discarica ogni secondo di ogni giorno e ogni notte (UNEP, 2018), circa il 60% dei materiali utilizzati dall'industria della moda sono in plastica (UNEP, 2019), ogni anno vengono rilasciate nei mari 500 mila tonnellate di microfibre, l'equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica (Ellen MacArthur Foundation, 2017), l'industria della moda è responsabile di circa l'8/10% delle emissioni di carbonio mondiale, più di tutti i voli internazionali e di tutti i trasporti via mare messi insieme (UNEP, 2018). Circa 93 miliardi di metri cubi d'acqua - sufficienti per soddisfare i bisogni di cinque milioni di persone - vengono utilizzati ogni anno determinando, di fatto, la mancanza d'acqua in alcuni luoghi (abitati). (UNCTAD, 2020), infine, circa il 20% dell'inquinamento delle acque reflue industriali di tutto il mondo proviene dall'industria della moda (WRI, 2017).

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Secondo Business Insider la produzione dell'industria della moda causa il 10% del totale delle emissioni globali di carbonio, tanto quanto l'intera Unione Europea. Prosciuga le fonti d'acqua e inquina fiumi e torrenti, mentre ogni anno a finire in discarica è l'85% di tutti i tessuti. Durante il lavaggio degli indumenti, rilascia invece 500mila tonnellate di microfibre ogni anno, l'equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica. Il rapporto Quantis International del 2018 ha rilevato che i tre principali fattori di impatto dell'inquinamento globale del settore della moda sono la tintura (36%), la preparazione del filato (28%) e la produzione di fibre (15%). Il rapporto ha inoltre fatto luce sul fatto che la produzione di fibre è la fase che ha l'impatto maggiore sul consumo di acqua dolce e sulla qualità dell'ecosistema a causa della coltivazione del cotone, mentre le fasi di tintura e della preparazione del filato impattano in modo determinante sull'esaurimento delle risorse per via dei processi ad alta intensità energetica che traggono energia dai combustibili fossili. E, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, le emissioni della sola industria tessile saliranno del 60% entro il 2030.

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L'impatto ambientale del fast fashion include l'esaurimento delle fonti non rinnovabili, l'emissione di gas serra e l'uso di enormi quantità di acqua ed energia. L'industria della moda è la seconda più grande industria per il consumo di acqua e ne servono circa 3 mila litri per produrre una camicia di cotone e oltre 7500 per produrre un paio di jeans. La tintura tessile è inoltre il secondo più grande inquinatore dell'acqua al mondo poiché l'acqua residua del processo di tintura viene scaricata in fossi, ruscelli o fiumi. Quindi a mare. Un mare che è già mortificato dalle microplastiche. I marchi che utilizzano fibre sintetiche come poliestere, nylon e acrilico (praticamente tutti) stanno usando materiali che impiegano centinaia di anni per biodegradarsi. Un rapporto del 2017 dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) ha stimato che il 35% di tutte le microplastiche - minuscoli pezzi di plastica non biodegradabile – che si trovano nei mari provengono dai tessuti sintetici. In pratica, mangiando pesce mangiamo microplastiche. Secondo il documentario pubblicato nel 2015 “The True Cost”, nel mondo vengono consumati circa 80 miliardi di capi di abbigliamento nuovi ogni anno, il 400% in più rispetto al consumo di vent'anni fa. Significa che il cittadino medio ora genera personalmente poco meno di 40 kg di rifiuti tessili ogni anno. La produzione della pelle è un'altra storia: richiede grandi quantità di mangime, terra, acqua e combustibili fossili per allevare il bestiame, mentre il processo di concia è tra i più tossici di tutta la filiera della moda perché le sostanze chimiche utilizzate per conciare la pelle - tra cui sali minerali, formaldeide, derivati del catrame di carbone e vari oli e coloranti - non sono biodegradabili e contaminano le fonti d'acqua. Oltre al fatto che, poveri animali. La produzione di fibre di plastica per trasformarle in tessuti è un processo ad alta intensità energetica che richiede grandissime quantità di petrolio e rilascia particolato volatile e acidi come quello cloridrico. Inoltre, il cotone, che si trova in quasi tutti i vestiti low cost, non è nemmeno ecologico da produrre: i pesticidi necessari per favorire la crescita del cotone sono così dannosi che il loro utilizzo comporta perfino dei rischi per la salute degli agricoltori: le pratiche di produzione convenzionali provocano anche l'erosione e il degrado del suolo, la contaminazione delle acque e diverse altre forme di inquinamento. Il cotone è uno dei tessuti più comunemente utilizzati per i vestiti. La sua produzione fa da sostentamento a 28,67 milioni di persone e fornisce benefici a oltre 100 milioni di famiglie in tutto il mondo (OMC, 2020). Riconoscendo il ruolo fondamentale del cotone per lo sviluppo economico, il commercio internazionale e la riduzione della povertà, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso lo scorso anno di proclamare la Giornata mondiale del cotone il 7 ottobre. Per la sua prima edizione, nel 2021 la giornata servì a sottolineare l'importanza di una crescita economica inclusiva e sostenibile, di un'occupazione piena e produttiva e di un lavoro dignitoso per tutti quelli che operano nel settore del cotone. Pertanto, se vogliamo raggiungere gli SDGs, è essenziale supportare modelli sostenibili di produzione di cotone. Scopri di più sulla sostenibilità ambientale nel settore del cotone attraverso le risorse seguenti.

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L'industria della moda è una fetta importante dell'economia globale: ha un valore di oltre 2,5 trilioni di dollari e dà lavoro a oltre 75 milioni di persone, registrando una crescita praticamente senza pari negli ultimi decenni. Ma il fast fashion non ha solo lati positivi dal punto di vista economico e un enorme lato negativo legato all'impatto ambientale. Non si può parlare dell'industria della moda senza fare una riflessione sui danni che crea sul piano sociale, soprattutto nei Paesi che hanno economie in via di sviluppo e nei quali risiede gran parte della forza lavoro coinvolta. Secondo l'organizzazione no-profit Remake, l'80% dell'abbigliamento globale è prodotto da giovani donne sottopagate che hanno un'età compresa tra i 18 e i 24 anni. Un rapporto del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti del 2018 ha trovato prove di lavoro forzato e di lavoro minorile legato al settore della moda in Argentina, Bangladesh, Brasile, Cina, India, Indonesia, Filippine, Turchia e Vietnam. E infatti, se ci si pensa un solo istante, è chiaro che l'iper produzione ultra rapida significa che le vendite, e quindi anche i profitti, non contemplano il benessere di chi lavora nelle retrovie. E questo al netto di incidenti: nel 2013, un edificio di otto piani a Dhaka, in Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento destinato agli scaffali dei brand che tutti conosciamo, è crollato uccidendo 1134 lavoratori e lavoratrici e ferendone oltre 2 500. Nel suo progetto, “An Analysis of the Fast Fashion Industry”, la saggista Annie Radner Linden scrive che "l'industria dell'abbigliamento è sempre stata un'industria a basso capitale e ad alta intensità di manodopera". Nel suo libro, “No Logo”, Naomi Klein sostiene infatti che i Paesi in via di sviluppo sono la linfa vitale per le industrie della moda grazie a una combinazione di "manodopera a basso costo, vaste agevolazioni fiscali e leggi indulgenti". E peraltro i Paesi in via di sviluppo seguono raramente le direttive occidentali legate alla sostenibilità ambientale (per questo molti brand hanno le fabbriche proprio là). La Cina, per fare solo un esempio, che è una delle roccaforti del fast fashion, è nota per le condizioni degradate del suolo e per l'inquinamento dell'aria e dell'acqua. Ma andiamo al reale problema: alcuni attivisti parlano del ritorno della schiavitù. Gli "schiavi moderni" sono praticamente solo donne e molte lavorano nelle fabbriche legate all'industria della moda che si trovano in Asia. Un rapporto del 2019 di Oxfam dal titolo “Made in povertà - Il vero prezzo della moda”, ha raccolto le interviste di 472 lavoratrici dei principali Paesi di approvvigionamento per l'abbigliamento che finisce sugli scaffali dei negozi in Australia, Vietnam e Bangladesh. E i risultati sono inquietanti. Nove lavoratrici su 10 intervistate in Bangladesh non possono permettersi cibo a sufficienza per se stesse e le loro famiglie e sono costrette a saltare regolarmente i pasti, a mangiare in modo inadeguato o a indebitarsi. Il 72% delle lavoratrici intervistate nelle fabbriche del Bangladesh e il 53% del Vietnam non possono permettersi cure mediche quando si ammalano o si infortunano. Il 76% delle lavoratrici non ha acqua corrente all'interno della propria casa e oltre il 40% ha dichiarato di dover utilizzare l'acqua piovana o di pozzo. In Bangladesh, una lavoratrice su tre vive lontana dai propri figli e quasi l'80% di loro lo fa perché il suo reddito non le consente di avvicinarsi a loro. Tutte e tutti amiamo gli sconti, trovare i vestiti che ci piacciono a un prezzo abbordabile e portarli via a casa senza fare i conti con il portafogli, ma dobbiamo considerare il reale costo di quell'oggetto: il lavoro sottopagato di schiave moderne. La co-fondatrice di Walk Free, un'organizzazione globale per i diritti umani che mira a sradicare la schiavitù moderna, Grace Forrest, ha scritto "Se il tuo femminismo non include le donne che fanno i tuoi vestiti, non è proprio femminismo".

La pandemia da Covid 19 ha in qualche modo rallentato il fast fashion ma ora che i lockdown sembrano essere solo un ricordo e che stiamo tornando ad andarcene in giro, vogliamo di nuovo comprare nuovi vestiti. Ma dopo aver vissuto quello che abbiamo vissuto, questo potrebbe essere un buon momento per fare il punto sulle implicazioni sociali e ambientali del nostro stile di vita, partendo proprio dal modo di pensare al possesso di abiti e borse. Secondo l'American Chemical Society, dal 2000 al 2020 la produzione di abiti e accessori è raddoppiata e probabilmente triplicherà entro il 2050. E poiché gli indumenti sono diventati economici, vengono facilmente scartati dopo essere stati indossati solo poche volte. Infine, lo shopping online che rende tutto disponibile sia giorno che di notte, ha reso più facile l'acquisto impulsivo. La slow fashion (“moda lenta”) potrebbe essere una soluzione, un freno alla produzione eccessiva e al consumo sconsiderato di risorse, animali e forza lavoro. Ma non tutte le persone possono permettersela. Il World Resources Institute suggerisce che le aziende devono progettare, testare e investire in modelli di business che riutilizzano i vestiti e ne massimizzano la vita, mentre l'ONU ha lanciato l'Alleanza per la moda sostenibile. Nasce durante la quarta Assemblea delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEA-4), l'Alleanza delle Nazioni Unite per la moda sostenibile che sta cercando di fermare le pratiche ambientali e socialmente distruttive della moda. L'Alleanza sta migliorando la collaborazione tra le agenzie delle Nazioni Unite analizzando i loro sforzi nel rendere la moda sostenibile, identificando soluzioni e lacune nelle loro azioni e presentando questi risultati ai governi per attivare le politiche. Inoltre, l'iniziativa Forests for Fashion, guidata da UNECE, FAO e partner, è stata lanciata per promuovere una gestione sostenibile delle foreste aumentando la consapevolezza sulla rilevanza delle aree forestali sostenendo soluzioni innovative per la produzione di abbigliamento e accessori. Diverse altre organizzazioni internazionali stanno lavorando e facendo sforzi reali per promuovere un'industria della moda che sia più sostenibile. Stanno cercando quindi, citando il documento che sancisce l'Alleanza, di "fermare le pratiche distruttive sia per l'ambiente che per la società dell'industria della moda”. Un modo con cui gli acquirenti possono ridurre l'iper consumo di abiti e accessori è per esempio acquistare nei negozi di seconda mano o vintage o scambiarsi capi d'abbigliamento usato solo un paio di volte o anche mai, ma comprato per sbaglio, attraverso le app che oggi come oggi spopolano. Oppure andare a cercare brand che si pongono il problema e andare a comprare da loro. Per esempio Adidas sta sperimentando la produzione di attrezzature personalizzate per ridurre i resi, aumentare la soddisfazione dei clienti e ridurre le scorte utilizzando i materiali che ha già a disposizione o ancora Ralph Lauren ha annunciato che entro il 2025 utilizzerà materiali che al 100% sono provenienti da fonti sostenibili. I Governi d'altro canto devono pur far qualcosa, a cominciare dall'essere maggiormente attenti alle condizioni di lavoro dei loro cittadini oltre che all'impatto ambientale che le industrie hanno sul loro territorio.