L’acqua, un bene comune da proteggere insieme - LifeGate

2022-06-25 06:40:57 By : Mr. GANG Li

L’acqua è la risorsa più preziosa che abbiamo, ma spesso non le diamo il valore che merita. Uno sguardo ai problemi e, soprattutto, alle possibili soluzioni.

Visto dallo spazio, il colore predominante del nostro Pianeta è il blu. Il colore dell’acqua. Tanto basta per far capire che senza acqua non può esistere la vita. Si tratta del bene più prezioso che abbiamo sulla Terra. Tuttavia, troppo spesso non lo utilizziamo come tale. Anche perché ad esso non viene dato il giusto valore: etico ed economico. Eppure quest’ultimo, normalmente, è determinato dall’importanza di un bene e dalla sua rarità. E uno sguardo anche soltanto superficiale ai dati relativi alla disponibilità di tale risorsa naturale sono sufficienti per comprendere quanto la sua gestione sia determinante per il futuro dell’umanità.

Le riserve complessive di acqua presenti sul nostro Pianeta sono infatti pari a 1.400 milioni di miliardi di metri cubi. Una massa immensa, che copre circa i tre quarti della superficie terrestre. La porzione di acqua dolce, tuttavia, è estremamente inferiore rispetto al totale. L’acqua salata dei mari e degli oceani è infatti pari a 1.365 milioni di miliardi di metri cubi, ovvero circa il 97,5 per cento del totale. Del restante 2,5 per cento (35,2 milioni di miliardi di metri cubi), soltanto una quota infinitamente più piccola è realmente a disposizione dell’uomo. Parliamo di meno dell’1 per cento di quel 2,5 per cento. Il che, tradotto, significa che possiamo raggiungere e sfruttare solo lo 0,028 per cento della cosiddetta idrosfera, ovvero l’insieme delle acque presenti sotto varie forme a livello globale. Il resto dell’acqua dolce non può essere infatti consumata dall’uomo (ad esempio poiché troppo in profondità nel suolo o perché congelata). Quella a disposizione è quella stoccata in riserve naturali o artificiali (laghi, dighe, invasi, ecc.) oppure nelle falde acquifere di superficie.

Il lago Bajkal, situato nella Siberia meridionale, rappresenta la più grande riserva naturale di acqua dolce allo stato liquido al mondo, con 23mila miliardi di metri cubi di acqua. Non a caso, il bacino è stato inserito dall’Unesco nell’elenco dei siti considerati Patrimonio mondiale dell’umanità, anche per la ricchezza della biodiversità che ospita.

L’acqua, dunque, non è rara sulla Terra. Ma quella che possiamo utilizzare per il consumo umano, che possono sfruttare gli animali e che può essere impiegata in agricoltura è pochissima. Inoltre, molte delle principali falde acquifere del mondo sono sottoposte a crescente stress: il 30 per cento dei più grandi sistemi di acque sotterranee si sta ormai esaurendo. Non solo: la risorsa fondamentale per la vita è anche distribuita nel mondo in modo fortemente diseguale.

Più di un quarto della popolazione mondiale, infatti, non può godere di un accesso diretto all’acqua potabile. Parliamo di qualcosa come due miliardi di persone, distribuite su 80 nazioni della Terra. Con un’incidenza particolarmente elevata, a causa della mancanza materiale della risorsa, in Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Libia, Cipro, Singapore, Malta e Israele. A ciò si aggiunge – spiega il rapporto “Il valore dell’acqua”, pubblicato nel 2021 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco) – il fatto che “circa 1,6 miliardi di persone devono affrontare una scarsità d’acqua ‘economica’. Il che significa che benché essa può sia fisicamente disponibile, mancano le infrastrutture necessarie per accedere a quell’acqua”.

Più in generale, le Nazioni Unite hanno stimato che oltre due miliardi di persone vivano in paesi che soffrono di stress idrico. E si stima che circa quattro miliardi di persone vivano in aree che patiscono situazioni di grave scarsità idrica fisica, ovvero mancanza materiale della risorsa, per almeno un mese all’anno. Una situazione che non farà che aggravarsi per colpa dei cambiamenti climatici: l’aumento della temperatura media globale, che in alcune aree del Pianeta risulterà particolarmente elevato, esacerberà situazioni che già oggi possono essere definite di crisi. Provocherà infatti ondate di siccità sempre più marcate e durature nel tempo. Ed esaspererà la variabilità stagionale, rendendo più irregolare e incerto l’approvvigionamento idrico. Così, saranno non soltanto ancor più complicate le situazioni di alcune regioni della Terra, ma il fenomeno colpirà anche aree che ad oggi ne sono esenti.

All’estremo opposto, esistono alcuni paesi che vengono considerati dagli esperti delle Nazioni Unite come “potenze idriche”. In particolare, si tratta di nove stati: Brasile, Russia, Indonesia, Cina, Canada, Stati Uniti, Colombia, Perù e India. Da soli, i loro territori hanno l’immensa fortuna di custodire quasi il 60 per cento delle risorse mondiali di acqua dolce.

Quattro miliardi di persone vivono in aree che soffrono di grave scarsità idrica fisica, ovvero mancanza materiale della risorsa, per almeno un mese all’anno.

Secondo l’Unesco, “l’uso globale di acqua dolce è aumentato di sei volte negli ultimi 100 anni, e continua a crescere a un tasso di circa l’1 per cento all’anno dagli anni Ottanta. L’agricoltura attualmente è responsabile del 69 per cento dei prelievi idrici globali che vengono utilizzati principalmente per l’irrigazione, ma includono anche l’acqua utilizzata per il bestiame e l’acquacoltura”. Si tratta di un rapporto che, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), può arrivare a toccare il 95 per cento in alcuni paesi in via di sviluppo.

La stessa agenzia delle Nazioni Unite ha stimato che, sulla base di uno scenario a parità di condizioni, il mondo avrà bisogno di circa il 60 per cento in più di cibo entro il 2050, per sfamare dieci miliardi di persone. Ciò comporterà un incremento della produzione agricola, e in particolare di quella irrigua, che registrerà una crescita di oltre il 50 per cento nello stesso periodo. Certo, potremmo eliminare gli sprechi di cibo, poiché già oggi produciamo ben più di ciò che sarebbe necessario per sfamare l’intera umanità, ma concentriamo la distribuzione nelle nazioni ricche del mondo (che ne fanno finire enormi quantità nella spazzatura). E inoltre ci si potrebbe orientare verso diete a minore impatto. Ma la storia insegna che non è detto che ciò venga fatto.

Le multinazionali del settore agroindustriale prediligono la strada dell’aumento della produzione (e dei giri d’affari). Di conseguenza, uno scenario che preveda un notevole incremento dell’uso agricolo delle risorse idriche non può essere di certo escluso. Una parte non indifferente dei consumi di acqua dolce, inoltre, è legato all’industria. Quest’ultima copre infatti il 19 per cento del totale, considerando anche la quota legata alla generazione di energia elettrica tramite impianti idroelettrici. Infine, le città consumano il restante 12 per cento.

L’umanità, dunque, deve la sua stessa esistenza all’acqua. Ne discende che l’attribuzione stessa di un valore economico a tale bene appare – filosoficamente prima ancora che finanziariamente – quasi impossibile, poiché inestimabile. Nel mondo, però, spesso l’erogazione di acqua viene effettuata sulla base di prezzi che non riflettono tale concetto. E che di fatto agevolano gli sprechi.

Normalmente, il valore di un bene viene concepito sulla base di tre principi: il valore di scambio, ovvero il prezzo di mercato di un bene o di un servizio. Quindi l’utilità, sulla base degli usi che se ne fanno. E infine l’importanza, che può essere anche “emotiva” e dunque, di fatto, soggettiva. Il risultato è che il valore “reale” dell’acqua è stato spesso trascurato, portando inevitabilmente a un uso improprio nonché a casi di appropriazioni indebite da parte di determinati gruppi di interesse.

D’altra parte, basti pensare che è stato necessario aspettare il 28 luglio del 2010 per un primo riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. All’epoca, quest’ultima approvò infatti una risoluzione storica, con 124 voti favorevoli, 41 astensioni e un solo paese contrario. Il documento, che era stato presentato da un gruppo di 35 nazioni del Sud del mondo, sanciva il “diritto all’acqua potabile”. Un’iniziativa guidata, all’epoca, dalla Bolivia di Evo Morales, che da sempre si è battuto affinché le risorse idriche fossero considerate “un bene comune”.

Occorrerà poi aspettare sette anni affinché, nel 2017, il Global High-Level Panel on Water and Peace (Gruppo globale di alto livello su acqua e pace, lanciato da 15 paesi sotto l’egida delle Nazioni Unite) decreti: “L’acqua è vita. È una condizione fondamentale per la sopravvivenza e la dignità umana ed è la base per la resilienza delle società e dell’ambiente naturale”.

Ma la gestione dell’acqua da parte di soggetti privati, che rispondono – come ovvio – a logiche puramente aziendali, è stata ormai, in qualche modo, “oltrepassata”. Non in senso positivo, però. Il 7 dicembre 2020 ha segnato infatti una svolta nel processo che, da decenni, ha portato a considerare l’acqua comunque un qualsiasi bene commerciale. In quella data, infatti, essa fece il proprio ingresso alla Borsa di Chicago (Chicago mercantile exchange), negli Stati Uniti.

Si trattò della prima volta in cui una risorsa vitale non era, di fatto, più considerata solo come una merce che si può comprare e vendere sul mercato, ma addirittura come un asset finanziario. Sul quale poter speculare come lo si fa sul prezzo del petrolio o dell’oro.

Le transazioni, infatti, non riguardano il bene in sé. Ad essere trattati sono dei contratti finanziari chiamati derivati, con i quali, di fatto, si può scommettere sull’andamento dei prezzi. In altre parole, chi compra o vende non punta a farsi consegnare fisicamente cisterne di acqua, ma a veder salire il valore dei titoli acquistati, per poterli rivendere e centrare un guadagno. “Teoricamente – ha spiegato il quotidiano economico Valori.it – l’obiettivo è di garantire alle aziende che fanno un largo consumo di risorse idriche di gestire il loro bilancio, assicurandosi un prezzo di acquisto”. Ciò attraverso “i cosiddetti futures, contratti a termine che permettono di acquistare un prodotto ad un prezzo prefissato, in un periodo differito nel tempo. In questo modo si possono evitare le ripercussioni di possibili fluttuazioni dei prezzi. Inoltre, secondo gli operatori di Borsa, i futures sull’acqua dovrebbero consentire di monitorare la disponibilità della materia prima”. Ma la realtà è che a prevalere sono, appunto, gli speculatori. Il tutto in un mercato il cui valore è stimato nella sola California – dove è nata la finanziarizzazione dell’acqua – a 1,1 miliardi di dollari.

Come risolvere, dunque, il problema di un bene essenziale, la cui quantità è fortemente limitata nel mondo e sul quale premono numerose forze, da quelle agroindustriali a quelle finanziarie? Una risposta passa dall’economia circolare. Ovvero da un approccio che non soltanto dia alla risorsa il giusto valore, ma che la tratti con lungimiranza.

Abbiamo visto come la stragrande maggioranza dell’acqua prelevata dall’uomo sia destinata all’agricoltura e all’allevamento: la media sfiora il 70 per cento a livello globale, ma supera addirittura il 90 per cento nel sud dell’Asia.

Partiamo dunque da qui, dal settore più critico in assoluto, per capire se esistono delle contromisure. “Per quanto riguarda l’irrigazione, è fondamentale scegliere piante autoctone e idonee al contesto territoriale”, sottolinea il giornalista e geografo Emanuele Bompan, autore con Ilaria Nicoletta Brambilla di “Che cosa è l’economia circolare?”. L’esempio negativo, anzi, paradossale, è quello della California. Uno stato in cui la crisi idrica è conclamata ma i consumi restano spropositati, anche perché più di 5mila chilometri quadrati sono coltivati a mandorle (nel 1995 erano meno di 1.700). Ed è vero che le mandorle californiane ormai sono una potenza economica, con un valore della produzione 2020 stimato in 6,1 miliardi di dollari che ne fanno la terza commodity agricola dello Stato, dopo i latticini e il vino. Ma è vero anche che, secondo alcuni studi, servono 12 litri d’acqua per portare a piena maturazione una singola mandorla.

Il primo passo per abbassare la gigantesca impronta idrica dell’agricoltura è quello di selezionare le coltivazioni con un occhio di riguardo anche per le risorse che la Terra ci offre, e non soltanto per i profitti centrati nell’immediato. Dopodiché, “l’agricoltura rigenerativa aiuta anche nella captazione idrica”, cioè nell’approvvigionamento, spiega Emanuele Bompan.

“Il modello a cui guardare non è più quello della monocoltura intensiva senza nemmeno un albero o un filo d’erba attorno, bensì quello della produzione integrata”.

Possiamo inoltre contare sulle tecnologie per l’irrigazione efficiente. Ormai ne esistono parecchie, anche a basso costo: come le ali goccianti che somministrano a ogni pianta la quantità di acqua di cui ha bisogno, nel momento esatto in cui le serve; oppure l’agricoltura di precisione che si basa su “iot” (internet delle cose), data science e rilevazioni ambientali digitali; o ancora i droni che sorvolano i campi, li mappano con precisione e decidono dove e quando irrigare.

Sull’enorme impronta idrica dell’allevamento sono stati versati fiumi d’inchiostro. Il dato che circola di più è quello – clamoroso – per cui servono più di 15mila litri d’acqua per produrre un solo chilo di carne bovina. È stato elaborato dal Water footprint network e di sicuro è molto utile per comparare i vari alimenti tra loro: sempre restando nel campo della carne, infatti, scende a 4.300 litri per il pollo. Va comunque riletto alla luce del fatto che per la stragrande maggioranza si tratta di acqua verde, cioè quella piovana evaporata o traspirata dai terreni durante la crescita delle colture; poi, in percentuali molto inferiori, ci sono l’acqua grigia (quella necessaria per diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione) e quella blu (effettivamente prelevata dai corsi d’acqua e dalle falde per non essere più restituita all’ambiente).

Detto ciò, ci sono due strade per abbassare l’impronta idrica dell’allevamento. La prima spetta agli operatori del settore: si tratta di allevare i bovini in zone a ridotto stress idrico. Così facendo si eviterebbero vere e proprie stragi come quella accaduta nel 2013, quando migliaia e migliaia di manzi sono letteralmente morti di sete per la gravissima ondata di siccità che ha travolto il Brasile. La seconda strategia invece spetta e noi, e la conosciamo: ridurre – almeno in parte – i consumi di carne, prediligendo quella di filiera corta.

Ridurre i consumi di carne bovina è una strategia efficace per abbassare l’impronta idrica della propria dieta.

Profondi cambiamenti sono necessari anche nel settore industriale. Nei paesi avanzati, come detto, la produzione di energia elettrica e l’industria hanno un peso proporzionalmente maggiore sul consumo di acqua. L’Italia non fa eccezione. L’Istat fa sapere che tre settori, da soli, sfruttano il 40 per cento del totale dell’acqua impiegata per la manifattura: coke, prodotti petroliferi raffinati e prodotti chimici; prodotti in metallo (macchinari esclusi); e, infine, gomma e materie plastiche. Sebbene su scala inferiore, anche tessile e alimentare sono abbastanza esigenti, con un consumo idrico rispettivamente di 335mila e 288mila metri cubi l’anno (l’8,8 e il 7,6 per cento del totale dell’industria). “Per questo mondo esistono sempre più soluzioni tecnologiche che chiudono i cicli di acqua, il che significa usare sempre la stessa acqua per raffreddamenti. Oppure esistono cicli sempre chiusi con depurazione in caso di lavaggi, quando l’acqua si contamina”, prosegue Bompan.

Applicare l’approccio dell’economia circolare alla gestione dell’acqua significa proprio questo:

Sfogliando il libro 100 storie italiane di economia circolare, pubblicato nel 2021 da Fondazione Symbola, ci si imbatte per esempio in Naturella, una pelle realizzata dalla storica Santori Pellami tramite un processo innovativo brevettato nel 2018. Di per sé il settore conciario ha un impatto considerevole, ma in questo caso non si fa uso di cromo (sostanza tossica e inquinante) e i metalli pesanti sono ridotti al minimo, così come il consumo d’acqua e gli scarti di produzione. Il risultato è una pelle che assorbe bene i colori, resiste allo strappo alle rotture ed è biodegradabile al 77 per cento.

Restando nella moda, i jeans sono ormai assurti a simbolo dello spreco d’acqua: ne servono 3.800 litri per confezionarne un paio, tra la coltivazione del cotone e le numerose tinture (da tre a nove) necessarie per raggiungere la colorazione desiderata. Il fashion design studio milanese Blue of a kind ha trovato un’alternativa nell’upcycling: recupera capi vintage di ottima qualità in Italia e in Francia, li scuce pezzo per pezzo e li riassembla a mano, trasformandoli in giacche e pantaloni in denim. Veri e propri pezzi unici che traggono il loro stile proprio dai segni del passato.

In un ambito completamente diverso, Arvedi vuole dimostrare che anche la siderurgia può evolvere in chiave sostenibile, e lo fa anche attraverso un sistema di ricircolo dell’acqua utilizzata per i raffreddamenti che garantisce un risparmio idrico pari al 50 per cento rispetto agli impianti convenzionali.

“La buona notizia è che le soluzioni ci sono tutte, non dobbiamo inventarci niente”, conclude Bompan. “Servono volontà, investimenti, meccanismi di sostegno agli investimenti. E serve una cultura della sostenibilità che oggi è ancora carente”. Questo non significa rinunciare allo sviluppo, anzi. Significa sceglierne a lungo termine che garantisca anche alle nuove generazioni il benessere di cui abbiamo goduto noi.

In questo senso, un altro aspetto cruciale nella tutela delle risorse idriche è legato alla biodiversità. I bacini di acqua dolce e i mari ne conservano inoltre una quantità immensa e preziosissima. Quella presente negli oceani è fondamentale per l’equilibrio di un ecosistema, quello marino appunto, che rappresenta anche uno dei principali strumenti naturali di assorbimento della CO2 prodotta in eccesso dalle attività umane. Ma anche la diversità biologica presente nei bacini di acqua dolce, come fiumi e laghi, è di vitale importanza.

Normalmente i bacini lacustri si dividono in due zone ben distinte: una superiore, nel quale fitoplancton e vegetazione possono proliferare. E una inferiore, nella quale è presente molto meno ossigeno e le radiazioni solari non arrivano. Analizzare la seconda, nella quale la presenza di organismi viventi è inevitabilmente meno importante, aiuta a comprendere le dimensioni della ricchezza della biodiversità presente nei laghi, negli stagni o nelle marane. Crostacei, trote lacustri, salmerini alpini: la fauna presente nelle acque dolci profonde è impressionante. Senza parlare di vermi, larve, lumache che partecipano a bonificare l’acqua e a fornire cibo alle specie viventi.

Al contempo, sedimenti e resti di vita organica si accumulano sul fondo dei bacini, ospitando una moltitudine di batteri che costituisce il principale nutrimento di numerosi invertebrati. E anche alcuni pesci si inoltrano in acque profonde alla ricerca di cibo. Perfino la flora risulta ridotta a causa della mancanza di luce, ma è comunque presente.

Muovendosi verso la superficie, la vita già presente sui fondali si moltiplica. La fotosintesi permette lo sviluppo di numerose specie e gli elementi nutritivi si fanno più abbondanti, permettendo la riproduzione. Le piante presenti sono di tipo anfibio, come ad esempio la littorella uniflora, o semi-acquatico, come nel caso del trifoglio d’acqua. Assieme ad alberi e arbusti. Senza parlare dei numerosissimi insetti o degli uccelli migratori che nei loro viaggi sono soliti fare tappa in prossimità dei laghi. Si calcola che almeno 126mila specie dipendano dagli ecosistemi di acqua dolce. Ma si stima che la cifra possa salire a un milione tenendo conto di quelle non ancora note.

Si calcola che almeno 126mila specie animali e vegetali dipendano dagli ecosistemi di acqua dolce. Conteggiando anche quelle non ancora note, la cifra potrebbe salire fino a un milione.

A dimostrazione di quanto quest’elemento sia vitale non solo per la nostra biologia ma anche per il nostro modello di sviluppo, l’acqua dolce è la più antica fonte di energia usata dall’uomo. Quella salata, invece, è da molti considerata una nuova frontiera.

Addirittura i greci e i romani sfruttavano l’energia dell’acqua per azionare i mulini, per la prima centrale idroelettrica propriamente detta bisogna aspettare il 1879, quando fu costruita alle cascate del Niagara. Oggi, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), l’idroelettrico vale circa il 15,6 per cento del mix energetico globale: si tratta della terza fonte più importante del mondo e la prima tra le rinnovabili. Complessivamente, nel 2020 la produzione mondiale è stata di 4.418 terawattora, grazie a una potenza installata di 1.330 gigawatt.

Si tratta dunque di un sostegno fondamentale per le economie di numerose nazioni di tutto il mondo, e anche per la lotta ai cambiamenti climatici, che impone un abbandono delle fonti fossili a vantaggio, appunto, di quelle rinnovabili. Inoltre, i costi di sfruttamento dell’energia idroelettrica sono particolarmente bassi, esattamente come le emissioni di gas ad effetto serra. Tuttavia, non di rado gli impatti dal punto di vista sociale e ambientale sono particolarmente elevati, soprattutto nel caso di costruzioni di mega-dighe. Ovvero enormi strutture che prevedono invasi giganteschi, capaci di modificare radicalmente intere regioni, imponendo a volte migrazioni forzate alle popolazioni locali e incidendo profondamente sugli ecosistemi.

Ad oggi (dati del 2020) il principale produttore di energia idroelettrica al mondo è la Cina, che copre all’incirca il 31 per cento del totale. Al secondo posto figura il Brasile con il 9,4 per cento, seguito da Canada (8,8 per cento) e Stati Uniti (6,7 per cento). Ma, più in generale, una delle particolarità dell’idroelettrico è la sua disponibilità piuttosto omogenea nel mondo. E, contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, ad affidarsi di più a tale fonte non sono le regioni montuose, bensì quelle attraversate da numerosi fiumi. Alcune stime ritengono tra l’altro che il potenziale idroelettrico complessivo del Pianeta sia ben più alto rispetto a ciò che oggi viene sfruttato: si parla infatti di circa 15mila terawattora, ovvero il triplo di ciò che viene prodotto attualmente.

La diga di Detroit, nell’Oregon. L’idroelettrico è la prima fonte rinnovabile a livello globale, con 4.418 TWh generati nel 2020.

L’idroelettrico è solo uno dei modi in cui l’uomo sfrutta (o intende sfruttare in futuro) l’acqua al fine di produrre energia. Un esempio, in questo senso, è dato dalla cosiddetta tidal energy, ovvero l’energia maremotrice. Il cui potenziale, in alcune aree dell’Europa settentrionale in particolare, è potenzialmente gigantesco, ma che in Nuova Scozia, in Canada, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione.

In fondo alla baia di Fundy, braccio di mare che si allunga sulla costa atlantica della nazione nord-americana, si trova il Minas Basin, nel quale si registrano le maree più ampie al mondo, con un “tidal range” medio di 16,8 metri. Una risorsa energetica potenzialmente enorme: nella baia entrano ed escono due volte al giorno 115 miliardi di tonnellate di acqua. Sfruttare tale moto permetterebbe, secondo le stime, di raggiungere una potenza installata di circa 7 gigawatt di energia. Pari a quella di mille grandi pale eoliche offshore.

L’acqua, infatti, è molto più performante dell’aria, grazie alla sua maggiore densità. Un business intuito dall’impresa scozzese Sustainable Marine, che ha annunciato proprio nel mese di maggio del 2022 di aver immesso nella rete elettrica i primi kilowatt prodotti grazie a un sistema di pale idroeoliche installato nell’area.

Una notizia particolarmente positiva, che arriva mentre il mondo si chiede come affrontare gli sconvolgimenti geopolitici ed energetici dipesi dalla guerra in Ucraina. L’invasione della nazione europea era iniziata solo da pochi giorni, e una delle prime manovre dell’esercito russo fu quella di distruggere la diga di Kherson. Una sorta di vendetta, visto che era stata costruita dall’Ucraina nel 2014 per ridurre drasticamente (si parla dell’80 per cento) l’approvvigionamento idrico della Crimea, appena annessa dalla Russia stessa.

È soltanto uno degli innumerevoli episodi in cui l’acqua è stata usata come arma. Per la precisione, il Water Conflict Chronology censisce 1.300 conflitti negli ultimi 4.500 anni in cui le risorse idriche sono coinvolte a vario titolo. La loro frequenza risulta in aumento negli ultimi anni: si è passati dai 22 del 2000 ai 127 del 2021. Un paradosso, perché un elemento che garantisce la vita viene piegato agli interessi delle guerre, cioè alla sua stessa negazione. E non è soltanto un problema dei paesi in via di sviluppo, come forse viene spontaneo pensare. Nell’estate del 2021 alcuni proprietari terrieri dell’Oregon (legati, sembra, ad ambienti di estrema destra) hanno minacciato di abbattere le recinzioni e prendere il controllo degli impianti di irrigazione nel bacino del fiume Klamath, al confine con la California. In una zona flagellata dalla siccità.

Poi, in Africa, c’è il fiume Senegal, un maestoso corso d’acqua lungo 1.800 chilometri, con un bacino di 337.500 chilometri quadrati. Anche in questo caso si tratta di una risorsa cruciale per la produzione agricola, perché la zona è arida e densamente popolata (con 3 milioni e mezzo di abitanti). E a complicare le cose si aggiunge il fatto che il fiume attraversi tre stati diversi – Mali, Mauritana e Senegal, appunto – e i suoi affluenti ne lambiscano un quarto, la Guinea. Eppure, da anni la sua gestione è pacifica.

La differenza tra questo esempio e i precedenti potrebbe essere riassunta in una parola: diplomazia. La cooperazione per la gestione del fiume Senegal affonda le sue radici addirittura nell’epoca coloniale ed è stata suggellata da 13 diversi trattati internazionali, incluso quello che nel 1972 – nel bel mezzo di una gravissima ondata di siccità – sancisce la nascita dell’Organisation pour la mise en valeur du fleuve Senegal (Organizzazione per la valorizzazione del fiume Senegal, Omvs). Da allora, una commissione monitora il corso del fiume, regolamenta le reti elettriche e lo sviluppo industriale. E la proprietà delle dighe – fatto più unico che raro – è condivisa tra Mauritania, Mali e Senegal.

La diplomazia si costruisce anche in occasioni come il World water forum, un summit internazionale pubblico-privato organizzato da un think tank chiamato World water council. La nona edizione si è tenuta a marzo 2022 proprio in Senegal, a Dakar. “L’importanza di questi forum è data dall’urgenza crescente di trovare soluzioni alla molteplicità dei problemi legati all’acqua: dalla gestione dei rischi climatici fino alle infrastrutture sanitarie e ai grandi impianti di gestione come canali, dighe, sistemi di pompaggio, depositi”, racconta il giornalista ambientale Emanuele Bompan, presente ai negoziati. “La principale debolezza di questo forum a mio avviso sta nella scarsa partecipazione della società civile, dovuta ai prezzi d’ingresso abbastanza alti. L’Italia si era candidata per ospitare l’edizione 2024 facendo leva proprio sull’apertura a ong e movimenti, ma ha perso. Probabilmente ci riproverà per il 2026”.

A Dakar si è discusso di come fornire risposte alle necessità infrastrutturali, e la strada che è sembrata più promettente è quella degli investimenti pubblico-privati. “Qui scontrano due mondi”, spiega Bompan. “Da un lato c’è quello capitalista che vede gli investimenti nell’acqua come commodities e la sua finanziarizzazione come un’opportunità di crescita: in pratica, io vendo infrastrutture e incasso denaro da reinvestire in altre infrastrutture. L’approccio opposto prevede sempre la partecipazione del privato, considerando però l’acqua come un bene pubblico. Ciò significa che l’impresa può fare profitti e pagare stipendi e bonus ma non staccare dividendi per gli azionisti”. Insomma, bisogna trovare la formula giusta per riuscire a realizzare le infrastrutture, senza finire preda delle storture legate a una privatizzazione senza freni.

Storture che hanno condannato la capitale dell’Indonesia, Giacarta. O meglio, ex-capitale, visto che è stata ufficialmente sostituita da Nusantara, una metropoli costruita da zero che verrà inaugurata nel 2024. Incurante del fatto che il 40 per cento del territorio urbano sia collocato al di sotto del livello del mare, infatti, lo sviluppo caotico di Giacarta dell’ultimo decennio si è basato sulla continua estrazione dell’acqua di falda. A furia di scavare sempre più in profondità, la porzione settentrionale della città è lentamente sprofondata. E le inondazioni sono diventate sempre più frequenti.

L’auspicio è che eventi come questo, alla pari di quelli organizzati dalle Nazioni Unite, “riescano a riportare al centro dell’attenzione della diplomazia la questione idrica che è finita un po’ sotto traccia, dopo il grande successo del 2010 con l’approvazione del diritto all’acqua. E che oggi diventa fondamentale proprio perché l’acqua è la massima espressione dei cambiamenti climatici, nel suo eccesso, nella sua assenza, nell’innalzamento del livello dei mari e nella fusione di calotte polari e ghiacciai”, continua Bompan. Proprio a maggio 2022 hanno fatto il giro del mondo le immagini impressionanti di un ponte nel Pamir, in Pakistan, che si accartoccia letteralmente su sé stesso, travolto da una violenta massa d’acqua. La causa scatenante sta proprio nell’interminabile ondata di caldo torrido che ha flagellato il subcontinente indiano per tutta la primavera, facendo collassare il ghiacciaio Shishper.

The Hassanabad Bridge on the Karakoram Highway (KKH) in Pakistan collapsed on May 7 after a heat wave caused glacial ice to melt and flood the region, reports said.

Pamir Times/Ijlal Hussain via Storyful pic.twitter.com/fl1BDbjXYi

Ora che vediamo a occhio nudo quanto il clima metta a repentaglio una delle risorse più preziose che abbiamo, dovremmo anche capire quanto una gestione oculata, collaborativa e pacifica sia la strada più conveniente per tutti. Esempi come il fiume Senegal appaiono ancora come delle felici eccezioni, ma la verità – sottolinea Bompan – è che una vasta letteratura scientifica spiega per filo e per segno come governare i bacini idrici, anche transfrontalieri, ed esistono trattati delle Nazioni Unite che aiutano a dirimere le tensioni.

Il nodo sta sempre nell’esercizio del potere. Se le parti non hanno intenzione di negoziare, anche i migliori modelli non servono a nulla. Per questo è importante che i cittadini facciano pressione per gestire al meglio la risorsa acqua, evitando i conflitti.

Abbiamo gli strumenti in mano, perciò, per gestire l’acqua in modo sostenibile. Abbiamo dunque ciò che serve per salvaguardare tale risorsa e, con essa, la vita sulla Terra. A patto che a prevalere sia l’interesse di tutti.

L’acqua è una delle risorse fondamentali per la sopravvivenza umana, un bene primario, universale, ma spesso dato per scontato: nei paesi occidentali, la percezione prevalente nei cittadini è che sia una risorsa illimitata e sempre a portata di mano.

Secondo gli ultimi dati Istat, l’Italia si colloca in seconda posizione tra i paesi dell’Unione europea per il maggior prelievo di acqua per uso potabile pro capite. Ogni giorno consumiamo in media 215 litri a testa per attività che riteniamo, a ragione, di prima necessità, come fare la doccia o scaricare lo sciacquone del water, ma che spesso provocano uno spreco considerevole se pensiamo che una doccia di cinque minuti consuma fino a 90 litri. Spesso, il facile e immediato accesso all’acqua ci fa dimenticare quanto potremmo fare per limitare il suo uso.

Ecco, allora, 10 consigli, più uno, per limitare il consumo di acqua nelle nostre abitazioni, giorno dopo giorno.

Potrebbe sembrarti banale, ma la prima regola da adottare ogni giorno per risparmiare acqua in casa è chiuderla mentre ti lavi i denti, ti insaponi i capelli, ti fai la barba o ti depili. Il rubinetto del bagno ha una portata di 10 litri al minuto e lasciato aperto mentre ti spazzoli i denti, per esempio, ti farà utilizzare fino a 30 litri di acqua potabile senza che tu ne abbia realmente bisogno. Mentre ti radi, per risciacquare il rasoio, puoi riempire il lavandino o una bacinella con poca acqua. Ricorda: se tenessimo aperto il rubinetto solo per il tempo realmente necessario, potremmo risparmiare circa 2.500 litri di acqua pro capite all’anno.

Per riempire una vasca da bagno si consumano in media 150 litri di acqua, circa tre volte in più di quelli che servono per farsi una doccia: quest’ultima ti farà risparmiare fino al 75 per cento di acqua. Ricorda, però, che anche il tempo che utilizzi per lavarti può fare la differenza: ogni minuto che passi sotto la doccia consumi dai 6 ai 10 litri, in base al modello di soffione. Rimanere sotto il getto tiepido della doccia a volte è molto rilassante ma, se vuoi risparmiare acqua, cerca di evitare docce troppo lunghe.

I rubinetti che si trovano ora in commercio sono già in linea con le esigenze di risparmio idrico. Su quelli che già possiedi in casa, invece, puoi pensare di installare i frangigetto o aeratori: dispositivi che, attraverso un sistema di ventilazione, riducono la quantità d’acqua utilizzata fino al 50 per cento, senza comprometterne la resa e il comfort. Semplici da reperire e installare e piuttosto economici, i frangigetto sono in grado di far risparmiare fino ai 6mila litri di acqua ogni anno a una famiglia di tre persone.

Non ci crederai, ma oltre il 30 per cento dei consumi di acqua di casa provengono dallo scarico del wc. Le cassette del wc, infatti, ne contengono dai 10 ai 12 litri che spesso vengono utilizzati per scaricare anche un singolo fazzoletto. Utilizzare il proprio scarico con parsimonia, quindi, è un modo per non sprecare acqua. Se non l’hai già fatto, installa una cassetta a doppio pulsante: questi modelli permettono, infatti, di scegliere tra un getto da 6 e uno da 12 litri a seconda delle necessità, risparmiando fino a 26mila litri di acqua all’anno. Se non vuoi cambiare la tua cassetta a getto unico, puoi inserire al suo interno una bottiglia piena in modo da ridurre il volume di acqua scaricato ogni volta.

Un rubinetto che perde 90 gocce al minuto spreca dai 30 ai 100 litri al giorno e fino ai 4mila litri all’anno. Per questo è molto importante controllare di non avere perdite in casa, sia dai rubinetti che dallo scarico del wc. Farlo è molto semplice. Durante la notte, puoi posizionare sotto ai rubinetti un contenitore da controllare la mattina seguente. Per il wc, invece, puoi inserire del colorante alimentare: residui di colore sul fondo indicheranno una perdita. Anche il controllo periodico della bolletta dell’acqua ti potrà segnalare velocemente eventuali anomalie.

L’uso intelligente di un elettrodomestico inizia dalla fase di acquisto: lavatrici e lavastoviglie di nuova generazione, oltre ad appartenere a classi energetiche più efficienti, hanno funzionalità ad hoc come i sensori che rilevano il peso della biancheria e il grado di sporco per determinare la quantità ottimale di acqua e detersivo. Utilizza lavatrice e lavastoviglie sempre a pieno carico e opta per il lavaggio eco: a fronte della lentezza (impiegano da tre a cinque ore), utilizzano meno acqua rispetto al ciclo rapido perché la scaldno più lentamente e a temperature più basse. Ricorda anche di non effettuare il prelavaggio né per la lavatrice né per la lavastoviglie: in caso di macchie sugli indumenti, puoi pretrattare i capi mettendoli in ammollo; per le stoviglie, puoi toglie i residui di cibo con un fazzoletto. Secondo una ricerca Ipsos, se scegli di non sciacquare le tue stoviglie, risparmierai fino a 38 litri di acqua a ogni lavaggio.

Invece di lavare frutta e verdura sotto l’acqua corrente, riempi un contenitore o una bacinella con il quantitativo di acqua necessario e lasciale in ammollo per un po’, utilizzando il getto d’acqua che scorre solo per un veloce risciacquo finale. Questo metodo consente a una famiglia di tre persone un risparmio di circa 4.500 litri all’anno.

Il riutilizzo è una delle 4R della sostenibilità. Perché, allora, non cercare di riutilizzare anche l’acqua in ambiente domestico? Ti stai chiedendo come? Innanzitutto, pensa al tuo condizionatore e ai litri di acqua di condensa che rilascia durante le giornate più calde. Quell’acqua, priva di calcare, può essere usata nel ferro da stiro, per lavare i pavimenti o per pulire l’auto senza lasciare aloni. Con l’acqua che avanza dal lavaggio di frutta e verdura, invece, puoi innaffiare le piante. Ma c’è un modo anche per riutilizzare l’acqua di cottura della pasta: può tornare utile per il prelavaggio delle stoviglie, come brodo di base per la preparazione di minestre e zuppe o per cuocere le verdure al vapore.

L’acqua del rubinetto non è l’ideale per la cura delle piante perché le sostanze contenute al suo interno potrebbero danneggiarle. Senza dubbio, le più consigliabili a questo scopo sono l’acqua piovana, quella filtrata e quella distillata (senza profumo). Raccogliere l’acqua quando piove in appositi recipienti, quindi, non solo ti permetterà di non sprecare acqua, ma anche di irrigare le tue piante con quella più adatta a farle crescere sane e forti. Ma c’è un altro momento utile: spesso, infatti, facciamo scorrere il rubinetto in attesa che l’acqua diventi calda; inizia a raccogliere quella che esce ancora fredda e utilizzala per i più svariati scopi.

Prima regola: annaffia le piante del giardino, del balcone o di casa nelle ore più fresche, di sera o all’alba. Senza la luce del sole, infatti, l’acqua evapora più lentamente e viene assorbita completamente dalla terra; inoltre, in queste ore la pressione dell’acqua è inferiore, permettendo di risparmiarne diversi litri. Gli irrigatori automatici e programmabili sono preferibili all’irrigazione manuale tramite annaffiatoio o pompa, perché sono in grado di dosare meglio la quantità d’acqua necessaria. Se, poi, si opta per un’irrigazione a goccia, il risparmio va dal 40 al 70 per cento. Infine, è consigliabile aggiungere uno strato di pacciamatura intorno agli alberi e alle piante del tuo giardino per proteggerle dalla siccità e dall’arsura.

Un’altra buona abitudine quando sei in partenza per le vacanze estive o, comunque, quando non sei in casa per periodi più o meno lunghi, è quella di chiudere il rubinetto centrale: in caso di guasti agli impianti potrai evitare di sprecare moltissima acqua, ma anche di provocare danni a mura e strutture.

Purtroppo, però, spesso anche chi ha a disposizione una quantità sufficiente di acqua non può sentirsi garantito rispetto alla sua qualità. Oltre ad aver sprecato gigantesche quantità di risorse idriche, l’umanità ha spesso trattato con superficialità il problema dell’inquinamento. Secondo l’Unesco, sono ormai contaminati, a livelli più o meno gravi, “quasi tutti i principali fiumi in Africa, America Latina e Asia. Il carico di nutrienti, che è spesso associato al carico di agenti patogeni, è tra le fonti di inquinamento più diffuse”.

La stessa agenzia Onu aggiunge che “a livello globale, si stima che l’80 per cento di tutte le acque reflue industriali e urbane venga rilasciato nell’ambiente senza alcun trattamento previo, con effetti dannosi sulla salute umana e sugli ecosistemi. Questo rapporto è molto più alto nei paesi meno sviluppati, dove i servizi igienico-sanitari e le strutture per il trattamento delle acque reflue sono gravemente carenti”. Inoltre, un’analisi dell’Ocse del 2017 ha spiegato che “la gestione dei nutrienti in eccesso nel deflusso agricolo è considerata una delle criticità più diffuse legate alla qualità dell’acqua a livello globale”.

A ciò si aggiunge poi il gigantesco problema di plastiche e microplastiche, che non riguarda soltanto i corsi d’acqua dolce, ma anche i mari di tutto il mondo. La produzione mondiale di plastica è passata dai 2,3 milioni di tonnellate del 1950 ai 448 milioni del 2015. E le previsioni parlano di un ulteriore aumento di qui alla metà del secolo. Ciò principalmente per tre motivi: il primo è legati ai nostri modelli di consumo, che nel corso del tempo si sono spostati dal riparare al gettare per riacquistare. Oggetti che, via via, per ragioni di costi, hanno visto la plastica imporsi come principale materia prima, ai danni di legno, vetro, cuoio, fibre tessili. La seconda ragione è invece legata all’aumento demografico previsto per i prossimi decenni. E infine l’abbandono progressivo di benzina e gasolio come combustibili per i trasporti spingerà probabilmente numerose compagnie a buttarsi sul business petrolchimico.

Nel mondo, dei circa 400 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno, quasi 9 milioni finiscano in mare. Residui di plastica sono stati trovati praticamente ovunque nei mari e negli oceani, dalla fossa delle Marianne ai poli. Gli ammassi di plastica in mare hanno formato delle vere e proprie isole, le cosiddette Plastic island o il Great garbage patch: enormi piattaforme di inquinamento galleggiante tra oceano Pacifico, Atlantico e Indiano.

Entro il 2050 il peso della plastica negli oceani supererà il peso complessivo degli animali marini.

Ciò nonostante, ad oggi l’umanità non è ancora in grado di immaginare una vita senza plastica. L’aumento della produzione ha fatto sì che, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Science advances nel 2017, tra il 1950 e il 2015 la produzione cumulativa di rifiuti primari e secondari sia stata pari a 6,3 miliardi di tonnellate. Di questi, circa il 12 per cento sono stati inceneriti e il 9 per cento sono stati riciclati. E il rimanente 79 per cento? Nessuna delle plastiche più comunemente usate fino a qualche anno fa e la maggior parte di quelle tuttora usate è biodegradabile. Di conseguenza tale quota di rifiuti, anziché decomporsi, si è accumulata nelle discariche o nell’ambiente naturale ed è destinata a rimanerci per centinaia di anni. Insomma, il 60 per cento di tutta la plastica finora prodotta dall’umanità è spazzatura. E minaccia i nostri ecosistemi.

Compresi quelli italiani. Un recente studio dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha rivelato come più del 63 per cento delle tartarughe marine presenti nel Mediterraneo abbia ingerito plastiche, mentre nel mar Tirreno la stessa sorte ha riguardato più del 50 per cento dei pesci analizzati. Il Mediterraneo “accoglie” ogni anno 229mila tonnellate di plastiche, l’equivalente di 500 container, provenienti principalmente da tre Paesi: Egitto, Italia e Turchia. Il nostro Paese è secondo per la produzione di rifiuti plastici riversati in mare, con ben cinque città tra le dieci più inquinanti per la plastica del bacino del Mediterraneo: Roma, che detiene il primato assoluto, Milano, Torino, Palermo e Genova.

Le soluzioni all’inquinamento prodotto dalle microplastiche, tuttavia, non mancano. Un esempio su tutti riguarda l’abbigliamento: uno studio canadese pubblicato all’inizio del 2021 ha rivelato che le particelle di plastica presenti nell’Artico, nel 73 per cento dei casi, provengono da fibre tessili artificiali, come nel caso del poliestere. Ad ogni lavaggio, infatti, i capi perdono progressivamente spessore, liberando negli scarichi microplastiche che finiscono nei fiumi, nei laghi e negli oceani. L’applicazione obbligatoria di filtri alle lavatrici permetterebbe in questo senso di trattenere buona parte delle particelle inquinanti, ma una soluzione ancor più efficace passerebbe per la sostituzione del poliestere con fibre naturali. Il che consentirebbe di preservare non solo i mari ma anche i bacini di acqua dolce, già sottoposti a un crescente stress legato alla crescita dei consumi.

Plastica in mare Il Mediterraneo “accoglie” ogni anno 229mila tonnellate di plastiche, l’equivalente di 500 container © Agung Parameswara/Getty Images plastica in mare Gli ammassi di plastica in mare hanno formato delle vere e proprie isole, le cosiddette Plastic island o il Great garbage patch © Agung Parameswara/Getty Images plastica in mare Il 60 per cento di tutta la plastica finora prodotta dall’umanità è spazzatura © Agung Parameswara/Getty Images plastica in mare Sui circa 400 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno, quasi 9 milioni finiscano in mare © Agung Parameswara/Getty Images

Per arginare il problema servono, come detto, cambiamenti nelle abitudini e nei consumi. Ma anche le leggi (nazionali e comunitarie, assieme agli accordi internazionali) giocano un ruolo fondamentale. È per questo che le Nazioni Unite hanno inserito la tutela dei mari tra gli Obiettivi di sviluppo sostenibile con il Goal 14 – Vita sott’acqua.

Ma come trattare tutta la plastica che è già presente nei nostri mari? Una soluzione risiede nelle tecnologie innovative che, oggi, ci permettono di ripulire i mari dalla plastica grazie a quelle che possiamo definire vere e propri dispositivi “mangiaplastica”. Dal 2019, con il programma PlasticLess, LifeGate ha installato più di cento di questi nuovi dispositivi in diversi porti italiani grazie a una rete di persone e aziende che si sono unite nella sfida di ripulire i mari italiani dai rifiuti plastici. Una di queste è Coop con la campagna per l’ambiente Un mare di idee per le nostre acque che, nel 2022, giunge alla sua terza edizione.

Era il 2019 quando Coop ha lanciato la campagna Un mare di idee per le nostre acque, installando sul molo di Marina Genova a Sestri Ponente il primo Seabin: un cestino di raccolta dei rifiuti che galleggia in acqua di superficie e, posizionato in punti di accumulo come porti, marine o circoli, è in grado di catturare circa 500 chilogrammi di rifiuti all’anno, comprese le microplastiche da 5 a 2 millimetri di diametro e le microfibre da 0,3 millimetri. 

Il 7 giugno 2022, per il terzo anno consecutivo, la campagna Coop riparte proprio da Genova con tante novità e con il debutto di due nuovi dispositivi per la raccolta della plastica in mare, entrambi mai presentati fisicamente in Italia e disponibili oggi solo in altri cinque Paesi (Francia, Grecia, Italia, Canada e Usa): il Trash Collec’Thor e il Pixie Drone.

La prima tappa genovese è stata l’occasione anche per sensibilizzare su un dato clamoroso, rilevato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra): più del 70 per cento dei rifiuti nei mari italiani è depositato sui fondali e il 77 per cento è plastica. Per questo, il biologo marino Emilio Mancuso, presidente dell’associazione Verdeacqua, ha guidato una squadra formata da 4 sub professionsti del team di Tribù Diving Academy, un fotografo professionista e un altro biologo marino nonché video operatore subacqueo. Il team ha filmato i rifiuti ritrovati che verranno poi conferiti alle autorità preposte. L’attività è stata possibile grazie al supporto di SmartBay Santa Teresa, Scuola di Mare Santa Teresa e del Comune di Lerici.

Prosegue anche la collaborazione con Findus già avviata nel 2021, quando è stato il primo partner commerciale ad aderire alla campagna adottando dieci Seabin. Saranno attivati due nuovi dispositivi all’Isola della Certosa e a Rimini. Findus presenterà inoltre Fish for Good, manifesto che riassume l’impegno per la salvaguardia degli oceani. 

“Proteggere i nostri mari è un impegno che ci siamo assunti anni fa. Da un lato ci occupiamo di rendere la pesca il meno invasiva possibile aderendo alle varie certificazioni, riduciamo la plastica che utilizziamo negli imballaggi e che potrebbe finire in mare, alleviamo i nostri pesci nel rispetto dell’ecosistema che ci ospita. Accanto a questo, però, abbiamo scelto di occuparci anche di quella plastica che in mare ci è già finita e che minaccia l’ecosistema marino”, spiega Maura Latini, amministratrice delegata Coop Italia.

Dall’inizio della campagna sono stati raccolti quasi 32 tonnellate di rifiuti pari al peso di oltre 2 milioni di bottiglie da mezzo litro che, se messe in fila, eguaglierebbero la distanza tra Torino e Firenze (circa 400 chilometri).

Maura Latini, amministratrice delegata Coop Italia

Il Trash Collec’Thor cattura diversi i tipi di rifiuti galleggianti come bottiglie di plastica, sacchetti, mozziconi, ma anche idrocarburi e microplastiche fino a 3 millimetri di diametro. Attivo sette giorni su sette, il suo nome contiene anche quello del fortissimo dio del tuono, perché la capienza arriva fino a cento chilogrammi; un argano ne facilita il sollevamento una volta pieno.

Il Trash Collec’Thor cattura diversi i tipi di rifiuti galleggianti come bottiglie di plastica, sacchetti, mozziconi, ma anche idrocarburi e microplastiche fino a 3 millimetri di diametro. Attivo sette giorni su sette, il suo nome contiene anche quello del fortissimo dio del tuono, perché la capienza arriva fino a cento chilogrammi; un argano ne facilita il sollevamento una volta pieno.

Il Pixie Drone esplora, navigando, piccole aree di mare o di lago, a caccia dei rifiuti plastici che galleggiano lontano dai punti di accumulo dei pontili. Telecomandato da una distanza di 500 metri, può raccogliere fino a 60 chilogrammi di rifiuti: dalla plastica all’organico, dal vetro alla carta ai tessuti.

Il Pixie Drone esplora, navigando, piccole aree di mare o di lago, a caccia dei rifiuti plastici che galleggiano lontano dai punti di accumulo dei pontili. Telecomandato da una distanza di 500 metri, può raccogliere fino a 60 chilogrammi di rifiuti: dalla plastica all’organico, dal vetro alla carta ai tessuti.

“È fondamentale non abbassare la guardia e mantenere sempre alta l’attenzione delle pubbliche amministrazioni, delle aziende e delle persone sul tema dell’inquinamento da plastica nei mari. Con le due nuove tecnologie proposte da LifeGate PlasticLess, scelte dopo tre anni di scouting a livello internazionale, vogliamo confermare il nostro impegno concreto per avvicinarsi sempre di più a una soluzione”, aggiunge Simone Molteni, direttore scientifico di LifeGate.

Dopo l’inaugurazione a Genova, il tour prosegue toccando Venezia e il litorale tirrenico nel Grossetano, a Castiglione della Pescaia, fino ad arrivare in ottobre a Trieste. Testimonial d’eccezione Filippo Solibello, speaker radiofonico di Caterpillar, e Tania Cagnotto campionessa olimpica nei tuffi.

Sul molo di Marina Genova a Sestri Ponente sono stati installati un Trash Collec’Thor e un Pixie Drone.

Tappa in autunno sul litorale tirrenico.

Pulizia dei fondali dell’area marina protetta di Miramare.

Anywave Safilens è la prima imbarcazione ad aver istituito a bordo la figura del R.ECO, Responsabile ecologico – persona dell’equipaggio che ha il compito di rispettare e far rispettare un atteggiamento ecosostenibile durante la navigazione – e ad aver stilato un Decalogo di comportamenti da cui non derogare sia in navigazione che nelle fasi di attracco nei porti. Qualche esempio? La cambusa è rigorosamente plastic free; a bordo si beve da borracce riempite attraverso un rubinetto alimentato da un sistema di acqua potabile autonomo; i rifiuti sono rigorosamente differenziati; per la pulizia a bordo vengono utilizzati prodotti biodegradabili al cento per cento. Anche nel 2022, come l’anno scorso, Anywave accompagna Coop nella campagna “Un mare di idee per le nostre acque”. L’imbarcazione, guidata dallo skipper Alberto Leghissa, seguirà tutte le tappe e avrà una funzione di supporto educational, aprendosi alle visite di soci, dei consumatori e delle scuole.